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Spagna-Italia 1949, l’ultimo spettacolo della nazionale del Grande Torino

 

Ricordino gli italiani che in Spagna non ha vinto neppure Napoleone“.
(Titolo sul quotidiano spagnolo del pomeriggio ”La Tarde” del 26 Marzo 1949)

La domenica notte del 27 marzo 1949, agli occhi dei calciatori della nostra nazionale, smaniosi di distrazioni dopo la vittoria contro la Spagna, la Gran Via di Madrid era apparsa molto diversamente da come si presenta oggi.

Il razionamento dell’energia elettrica, causato dall’embargo internazionale al regime franchista e da otto mesi di siccità, non poteva permettere un lusso come le luci rutilanti dei nostri giorni. Solo alcuni lampioni sporadici illuminavano fiocamente la strada.

E la movida era rappresentata dalla folla che passeggiava tranquillamente sui marciapiedi e da alcuni esclusivi locali notturni, i tabarin, delle specie di progenitori adottivi delle sale privé delle discoteche, dove si poteva ballare ed assistere a programmi di varietà ed avanspettacolo. I calciatori italiani, finalmente in libera uscita dopo quattro settimane di sobria concentrazione, avevano preso d’assalto quello che poteva offrire la Madrid de noche, con l’obiettivo di non tornare in albergo prima della mezzanotte.

Per arrivare a godersi quella nottata di festa, il clan azzurro si era preparato spiritualmente da un mese esatto. Già immediatamente dopo il 27 febbraio 1949, quando allo stadio Marassi di Genova l’Italia aveva battuto il Portogallo con un inequivocabile 4-1, la Commissione Tecnica, composta dai due torinisti Ferruccio Novo e Roberto Copernico e dall’interista Ermanno Aebi (l’allenatore ufficiale, Luigi Ferrero, non era molto di più che un preparatore atletico), cominciava a tessere le trame per l’amichevole di cartello contro la Spagna a Madrid.

In quel campionato italiano 1948/49 il Grande Torino stava nuovamente dominando. E con cinque punti di vantaggio sull’Inter, la più diretta inseguitrice, e poi, a scalare, sette sul Milan, dieci sul Genoa, undici sulla Sampdoria, e dodici sulla Juventus, aveva già messo un’ipoteca sul quinto scudetto consecutivo dal 1943. Era quindi del tutto consequenziale che i giocatori di quel Torino andassero a costituire la spina dorsale della nazionale italiana. Contro il Portogallo, la troika selezionatrice, che si era recentemente insediata al posto di Vittorio Pozzo, sostenitore ed ideatore dello schema calcistico del metodo, ne aveva schierati sette undicesimi.

A proposito di schemi, nel secondo dopoguerra il calcio mondiale stava attraversando una fase di maturazione tattica. E dal “metodo”, detto anche MM per la disposizione 2-3-2-3 in campo, che formava idealmente queste lettere, si era passati all’adozione del più moderno ”sistema”, detto WM per la disposizione 3-4-3. Dal momento che la nuova gestione italiana aveva optato per quest’ultimo, secondo tutti i giornalisti dell’epoca era molto importante utilizzare giocatori che, per esperienza, ne avessero il più possibile di familiarità.

Infatti, nelle interviste ai nostri giornali il commissario Roberto Copernico, in veste di portavoce della commissione tecnica, per giustificare la selezione dei giocatori, puntava il dito sulla massima aderenza possibile a questo nuovo assetto strategico. E il 21 marzo, dopo una serie di esperimenti effettuati durante altrettante partite di allenamento, vengono resi noti i nomi dei sedici prescelti per la trasferta in Spagna (o in “terra di Spagna”, come scrivono molto solennemente i giornalisti sportivi dell’epoca).

Come previsto, anche questa volta il Grande Torino è il gruppo più numeroso, con sei convocati (Valerio Bacigalupo, Aldo Ballarin, Mario Rigamonti, Eusebio Castigliano, Romeo Menti e Valentino Mazzola), mentre quattro sono dell’Inter (Angelo Franzosi, Osvaldo Fattori, Benito Lorenzi e Amedeo Amadei), due di Milan (Carlo Annovazzi e Riccardo Carapellese) e Juventus (Carlo Parola e Giampiero Boniperti), ed uno a testa per il Genoa (Fosco Becattini) e la Triestina (Pietro Grosso).

 

 

Dopo avere travolto il Pisa, che a quei tempi militava in serie B, per 7-1 nell’ultima partita di allenamento del 23 marzo a Firenze, la mattina del giorno dopo la comitiva azzurra, composta da 31 persone (sedici giocatori, otto dirigenti, cinque giornalisti, un massaggiatore ed un arbitro in trasferta premio) parte alla volta della Spagna.

Con otto ore di volo alle spalle a trecento chilometri orari, ed una sosta per il rifornimento di carburante ad Alghero, gli italiani arrivano di sera all’aeroporto madrileno di Barajas. E, siccome gli Accordi di Schengen sono ancora molto al di là da venire, i pignolissimi controlli dei doganieri spagnoli richiedono altre tre ore di paziente attesa, prima di salire sul torpedone (gli effetti dell’autarchia linguistica di stampo fascista non si erano ancora dissolti tra i giornalisti, ed il termine ”pullman” continuava a venire italianizzato così) per andare al ritiro dell’Escorial, ad una cinquantina di chilometri di nuovissima autostrada da Madrid, sulle montagne della Sierra di Guadarrama.

Proprio quella sera la siccità, che da quasi otto mesi sta mettendo in ginocchio la Spagna, lascia finalmente il posto alla pioggia. Ma ai mille metri dell’Escorial questa si trasforma in una copiosa e inaspettata nevicata. Così, i nostri dirigenti, anche loro intirizziti dal freddo, decidono di scendere a valle. E alla mattina di sabato 26 marzo il nostro gruppo prende alloggio in un albergo della capitale.

Come in tutti gli alberghi della Spagna, fatta eccezione per il Grand Hotel Ritz accanto al Paseo del Prado, anche qui l’acqua corrente e l’energia elettrica sono razionate, e vengono rese disponibili solo per poche ore al giorno. Però, anche in Italia la vita non è molto meno difficile, e i nostri non fanno troppa fatica ad adattarvisi. Dopo aver visitato, come sempre in gruppo, la città da turisti per tutta la mattina, nel pomeriggio vanno ad assistere a una Corrida speciale (di norma il sabato non è giorno di Corrida), allestita in loro onore, nella piccola Plaza de Toros di Vista-Alegre.

Intanto, la febbre della partita sale in tutta Madrid. E i biglietti, dopo essere stati rapidamente esauriti ai botteghini, vengono venduti a ottocento pesetas in nero dai bagarini, un valore corrispondente a quasi il doppio dello stipendio mensile di un impiegato spagnolo. Anche la stampa sportiva locale sottolonea il valore simbolico dell’incontro, ponendo l’accento sul blasone dell’Italia, ancora campione del mondo in carica, nonostante sia passato più di un decennio e più di una generazione calcistica dalla vittoria del 1938. La Spagna invece, archiviata l’epoca di Ricardo Zamora e delle “furie rosse“, è una formazione abbastanza rinnovata, ed è composta esclusivamente da giocatori provenienti dalle quattro squadre di club che conducono il campionato: Barcellona, Valencia, Atletico Madrid e Atletico Bilbao. Ma al di là delle dichiarazioni pubbliche di pessimismo sul risultato finale, i tifosi credono nella possibilità di un miracolo. I giornalisti poi, integralmente addomesticati dal regime franchista, sembrano addirittura prepararsi alla celebrazione retorica di un trionfo insperato.

Se gli italiani si erano riservati un ritiro dai connotati austeri, la comitiva spagnola se ne era scelto uno al limite del monastico. Infatti, per una ventina di giorni, i calciatori, i tecnici e i dirigenti si erano alloggiati in una modesta locanda di Aranjuez, una località pianeggiante a metà strada tra Madrid e Toledo. Probabilmente il servizio non era stato troppo gradito dalla clientela, dal momento che a questo proposito il gigantesco (almeno per gli standard dell’epoca, essendo alto un metro e ottanta) centromediano dell’Atletico Madrid, Alfonso Aparicio, aveva confidato ironicamente ai nostri giornalisti:

Siamo in esilio da tre settimane.

A Madrid nel frattempo appaiono i primi sostenitori italiani in trasferta. Sono di una razza agli antipodi dei tifosi contemporanei, che viaggiano sui pullman, sui treni o sui voli low cost. Questi pionieri del tifo in trasferta arrivano con voli di linea e biglietti prenotati dalle agenzie di viaggio, e assomigliano più che altro a turisti d’élite in viaggio di piacere. Se ne conteranno in tutto più di tremila: impomatati, rumorosissimi, allegri e spendaccioni al punto che gli stessi madrileni li definiranno “i nuovi americani”.

La domenica del 27 marzo è il giorno della partita. E per venire incontro agli orari abituali degli spagnoli, che non pranzano mai prima del pomeriggio inoltrato, si decide di fissare l’incontro per le 16.30, un’ora inconsueta per quei tempi.

Era dall’aprile 1931 che la nostra nazionale non andava in trasferta in Spagna. Ma quell’ultima volta si era giocato a Bilbao nei Paesi Baschi, e il clima era incandescente per via dei moti rivoluzionari repubblicani. Eppure, come ricorda il direttore della Gazzetta dello Sport del secondo dopoguerra, Emilio De Martino, forse facendosi prendere un po’ la mano dalla nostalgia:

I rivoluzionari si inchinarono di fronte ai brillanti calciatori azzurri. E ci fu la tregua. Senonché quel giorno del match cosi atteso, ci fu anche una pioggia torrenziale. E il gioco naufragò nel fango. Il risultato in tali condizioni non poteva che essere nullo: e infatti fu di zero a zero.

Ma adesso non si sentono più squilli di rivolta, e l’ordine del Generale Franco regna incontrastato a Madrid. Il clima é quello di un giorno di festa, nonostante la pioggia che cade incessante fino al primo pomeriggio, e nonostante le restrizioni e la povertà diffusa. La città sembra vivere quest’incontro di calcio come un avvenimento mondano a cui tutti vorrebbero prendere parte. E ai novantamila spettatori seduti in tribuna e sulle gradinate, se ne affiancano altri centoventimila che si sono visti respingere la richiesta di acquisto del biglietto. Alcune migliaia tra questi, certamente i più irriducibili, guarderanno la partita in miniatura dalla cima di una collina che sovrasta lo stadio.

Inaugurato meno di due anni prima, ed ora gremito di pubblico e tappezzato di ombrelli, il nuovo stadio Chamartin, per tre quarti a due piani, offre un colpo d’occhio straordinario. I giornalisti italiani presenti si lasciano rodere d’invidia, pensando al pericolante stadio San Siro di Milano, il cui ampliamento continua a rimanere da anni allo stato di progetto. E per l’ultimazione del suo secondo anello si dovrà aspettare il 1955.

Con dieci minuti di ritardo sull’orario prestabilito e con un abitino da Prima Comunione: braghette corte, camicetta bianca, giacca grigia e calzettoni, l’arbitro inglese William Ling fischia l’apertura delle ostilità. La sua notorietà è già di livello internazionale, ma cinque anni dopo diventerà ancora più famoso. Sarà infatti lui a dirigere la discussa finale mondiale di Berna 1954 tra la Germania Ovest e l’Ungheria.

Battuto il calcio d’inizio, e giocando in favore di vento, l’Italia parte subito all’attacco. E due minuti dopo un allungo di Carapellese salvato in angolo dagli spagnoli, al 10′ Mazzola lancia un pallone millimetrico da centrocampo per Romeo Menti, che crossa verso il centro dell’area. Amadei spicca un balzo, e corregge di testa per Lorenzi, appostato sulla sinistra, a da due passi dal portiere Eizaguirre. Il suo tiro diagonale è imprendibile, e finisce contro la tesissima rete all’inglese (in Italia, invece, le reti erano allentate come un sacco vuoto) della porta spagnola.

É l’1-0 per i nostri. I ritmici battimani del pubblico madrileno sembrano accendere il ritmo della partita, mentre un sole, ancora circondato da nuvole nere, ritorna a illuminare il campo e lo stadio. Da una parte e dall’altra si procede tra attacchi e velocissimi contropiedi. Ed al 34′ Ballarin sgambetta insensatamente la punta Gainza, che si apprestava a caricare il portiere dentro l’area. L’arbitro inglese non ha dubbi a concedere il calcio di rigore. Infatti, secondo le nuovissime norme della FIFA, che tra l’altro sanzionano per la prima volta il fallo di ostruzione, la carica al portiere è consentita, nei limiti del regolamento e fuori dall’area piccola.

A trasformare la massima punizione provvede lo stesso Gainza con un tiro a mezza altezza, che lascia di sasso il nostro Bacigalupo.

Sull’1-1 l’Italia ritorna all’attacco. Al 44′ un’azione personale di Valentino Mazzola smarca Menti, che stoppa la palla e tira in porta. Ma Eizaguirre riesce a deviare quel tanto che basta a salvare in calcio d’angolo. É l’ultima occasione prima della fine del primo tempo, immediatamente seguita da una surreale azione personale di Zarra, che, non avendo sentito il fischio finale dell’arbitro, si produce in una serie di dribbling a testa bassa nei confronti del nulla.

Dopo l’intervallo gli azzurri lasciano la formazione del tutto invariata, mentre i granata (anche così sono chiamati gli spagnoli a quei tempi, perché il colore rosso della loro maglia non era ancora acceso come oggi) sostituiscono la punta José Hernandez con Cesar Rodríguez, un centravanti puro.

Il nuovo entrato si rende subito pericolosissimo. Ma pochi secondi dopo, da una sgroppata di Benito Lorenzi sulla destra, la palla arriva tra i piedi di Carapellese sulla tre quarti di campo. Il milanista entra in area, mette fuori causa tre difensori con una tripla finta, e anticipa Eizaguirre in uscita con un pallonetto che tocca il palo rotondo (in Spagna anche i pali erano alla maniera inglese, mentre in Italia avevano una forma ovoidale) per finire la propria corsa dentro la rete.

Sul vantaggio, l’Italia del 1949 non si chiude in difesa. E passano appena due minuti, che una punizione di Annovazzi viene respinta di testa dall’omnipresente Aparicio. Un metro fuori dall’area Amadei raccoglie di petto, e colpisce al volo di destro, con il pallone che si infila morbidamente sotto la traversa.

Sul 3-1 il gioioso pubblico del Chamartin entra improvvisamente in depressione. E gli attacchi dei padroni di casa sono scanditi da applausi sempre meno convinti. Eppure gli spagnoli ce la mettono tutta per andare a segno. Intorno al 20′ una punizione a due, toccata da Gainza per Goncalvo III, dopo essere stata deviata con la punta delle dita da Bacigalupo, si va a stampare sulla traversa.

Pochi minuti prima della mezz’ora il sole scompare e riprende a cadere una pioggia sottile. Gli italiani cominciano a difendere il risultato a centrocampo, mantenendo il possesso di palla. Ma più che una melina, sembra una dimostrazione di superiorità tecnica e di palleggio, rispetto ai più atletici e più ruvidi avversari.

Ma proprio mentre la partita sembra adagiarsi sul 3-1 per i nostri, a un minuto appena dalla fine l’arbitro Ling ravvede una gomitata in area di Becattini, e concede un secondo rigore agli spagnoli. Per i tifosi madrileni sarebbe stato il gol della bandiera. Ma Gainza, il rigorista della squadra, tira, senza convinzione, uno dei rigori più infelici della storia del calcio. Il pallone, raso terra, lento e centralissimo, finisce tra le braccia di Bagicalupo, che non ha problemi a bloccarlo. Lo fa rimbalzare tre volte per terra, e rinvia diagonalmente in direzione della tribuna centrale.

Al triplo fischio finale le riserve entrano di corsa in campo ad abbracciare i titolari della nostra nazionale. E le tribune dello stadio, prive di barriere protettive, sembrano formare un tutt’uno con il campo di gioco. Anche gli spettatori spagnoli, che avevano fischiato gli azzurri, cominciano ad applaudirli, conquistati dalla superiorità dimostrata durante l’incontro.

Negli spogliatoi i calciatori italiani festeggiano la vittoria cantando in coro “Dove sta Zazà”, la canzone napoletana del dopoguerra portata al successo da Nino Taranto, e rilasciano le interviste del dopopartita all’immancabile Nicolò Carosio, detto anche “il dodicesimo azzurro“, per il pathos che infondeva nelle proprie radiocronache. Il microfono però intimidisce i nostri campioni, tanto che lo stesso Carosio racconterà sulla Gazzetta dello Sport del giorno dopo:

Varcati gli spogliatoi con il microfono in pugno, lo demmo a Novo, che parlò con calma, seguito da Copernico, assai emozionato, quindi da Mazzola, Amadei, Becattini e Lorenzi. Questa volta però il linguacciuto Lorenzi e la sua inarrivabile vivacità sono stati battuti dal timor panico del microfono.

Usciti dallo stadio, ed indossato l’abito scuro, i giocatori delle due squadre salgono sul pullman per andare al ricevimento ufficiale, offerto per loro dalla federazione spagnola al Grand Hotel Ritz, il più esclusivo della città. E, dopo i tramezzini, lo spumante, e un discorso di commiato di Valentino Mazzola in castigliano maccheronico, i giovani italiani possono finalmente abbandonare la compitezza dell’ufficialità per scatenarsi nella piovosa movida madrilena di quella sera di inizio primavera del 1949.

Il giorno successivo gli italiani rimasti in patria possono leggere sulla Gazzetta dello Sport (uno dei pochi quotidiani a uscire di lunedì) i commenti trionfalistici dei giornalisti sportivi. L’esaltazione per l’impresa porterà il direttore Emilio De Martino a scrivere in un articolo di fondo:

La partita di Madrid resterà segnata a caratteri d’oro nella storia dello sport italiano.

Adesso le grandi vittorie degli anni trenta della nazionale di Vittorio Pozzo ritornano immediatamente in mente a tutti i tifosi. Sembra essersi davvero concluso quello che tanti giornalisti avevano definito: il dopoguerra calcistico. Inevitabilmente il pensiero vola al campionato del mondo, che solo un anno dopo si sarebbe dovuto tenere in Brasile. L’Italia, in quanto paese detentore, è qualificata di diritto, ed è tra le squadre favorite dal pronostico.

In quegli stessi momenti il quadrimotore della compagnia di bandiera, che trasporta gli azzurri, arriva a destinazione. E la destinazione non può essere che Torino, la capitale calcistica dell’epoca e la città di residenza della maggior parte della comitiva. Ad accogliere i vincitori all’aeroporto c’é poca gente (il divismo non aveva ancora piantato le radici dalle nostre parti). Solo una ragazza bionda offre un mazzo di fiori a Valentino Mazzola.

Anche dall’altra parte della barricata, in Spagna, la stampa, costretta dai fatti a rinviare i toni trionfalistici a un evento futuro, elogia ed esalta la nostra squadra. Come prevedibile in questi casi, il commissario tecnico Guillermo Eizaguirre (l’omonimia con il portiere Ignacio é puramente casuale) viene letteralmente strapazzato. Ma in un lungo articolo dedicato alla partita del Chamartin, la Hoja del lunes (Il foglio del lunedì), l’unico giornale autorizzato dal regime franchista a uscire il lunedì, forse cercando qualche scusante per la propria squadra, rimarca:

Ci rimane soltanto da non dimenticare che gli italiani sono i campioni del mondo, e che soltanto i maestri del calcio, gli inglesi, possono superarli nel continente.

Era vero, perché Italia ed Inghilterra erano le squadre, non solo più blasonate, ma anche più dotate nell’universo calcistico conosciuto. La grande Ungheria di Puskas, Kocsis, Czibor e Hidegkuti non si era ancora imposta a livello internazionale. Anche il Brasile, lontanissimo, dall’altra parte dell’oceno, era poco più che un’incognita. Ma solo un mese dopo, il 4 maggio 1949, la sciagura di Superga avrebbe azzerato il Grande Torino, la nostra nazionale e le speranze di gloria dei tifosi italiani.

(Giuseppe Ottomano)

News originale
sportvintage.it

Fotografie (da news originale):

  • Madrid, 27 Marzo 1949. I capitani spagnolo Juan Antonio “Epi” e italiano Valentino Mazzola si scambiano i gagliardetti sotto gli occhi dell’arbitro inglese William Ling
  • Un biglietto per Spagna-Italia del 27 Marzo 1949
  • Madrid, 26 Marzo 1949. La comitiva italiana in visita alla Plaza de Toros di Las Ventas
  • Madrid, 27 Marzo 1949. Le squadre schierate a centrocampo prima dell’incontro
  • Madrid, 27 Marzo 1949. L’elevazione di Mario Rigamonti in un colpo di testa per liberare la difesa
  • Madrid, 27 Marzo 1949. Nicolò Carosio trasmette la radiocronaca da bordo campo
  • Madrid, 27 Marzo 1949. Riccardo Carapellese segna il gol del 2-1 per l’Italia
  • Madrid, 27 Marzo 1949. Un’immagine del parcheggio dello Stadio Chamartin (oggi Stadio Bernabeu) a fine partita

N.B: La news viene qui interamente riportata in quanto i link, nel tempo, potrebbero essere spostati e quindi non più disponibili.

Invitiamo tutti coloro che, come noi, hanno trovato questa news di particolare interesse a visitare il sito web dal quale è stata tratta.
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Pubblicato il Mario Rigamonti

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