Questione di vocazione, di eredità. Mario Rigamonti non è solo l’indimenticato campione bresciano colonna del Grande Torino tragicamente scomparso a Superga nel ’49 coi compagni di squadra, al quale sono stati intitolati stadi, a partire da quello di Mompiano, casa delle Rondinelle. Mario Rigamonti è anche una società nata nel 1975 da un’idea di alcuni uomini di riferimento del calcio locale di allora.
Un’idea forte declinata sul mondo giovanile e, oggi, autenticamente difesa e portata avanti dal lavoro dei due figli.
Enzo Gaggiotti ed Angelo Scotti a metà degli anni ’70, dopo aver fondato il Rezzato, lasciano il paese della Valverde e si muovono verso Buffalora. Dal 1975 avranno una squadra, ma non un campo sul quale giocare. Quindi se lo costruiscono.
Il Centro Sportivo Mario Rigamonti, ora a gestione indipendente, nacque tre anni dopo l’omonima società. Il motivo del nome e del colore di riferimento del club, il granata, va ricercato nell’amicizia che Gaggiotti senior aveva intessuto con l’asso capriolese, baluardo difensivo dell’invincibile Torino del secondo dopoguerra.
C’è un’immagine che si può facilmente trovare nell’archivio del sito ufficiale della società: stagione 1975-1976, foto di squadra pre partita, categoria Juniores, quarto da sinistra in piedi un giovane Giorgio Gaggiotti, primo da destra papà Enzo. La Rigamonti per come la conosciamo prende forma da quello scatto, quella scintilla, un asse che si rinsalda aggiungendo gli Scotti, prima Angelo e poi Toni.
Il duo Giorgio-Toni, coadiuvato da un gruppo solidissimo di assistenti e collaboratori, compone da alcuni anni la colonna vertebrale della società. Loro i nomi di riferimento riconoscibili, dietro un’attività imponente, che muove tante persone, tanti ragazzi, e che è costantemente inserita in un processo di crescita, nei numeri e nella qualità.
Il duo è inscindibile, le anime sono differenti ma perfettamente miscelate, i concetti li inizia spesso uno e li termina l’altro. Per questo riporteremo i contenuti dell’intervista dentro un unico virgolettato, condiviso.
«Noi siamo solo la punta dell’iceberg, ci sono circa 50 persone che collaborano. Dal 2000 (anno in cui Giorgio smette i panni di team manager del Brescia Calcio e indossa quelli di dirigente Rigamonti, mentre per Toni la collaborazione è cominciata poche stagioni fa, ndr) si è impostato un processo. Le teste sono le nostre, ma non stiamo facendo altro che portare avanti i valori e le idee che i nostri genitori ci hanno trasmesso. Loro 50 anni fa credevano nell’importanza dei settori giovanili per le squadre di calcio, l’importanza di insegnare calcio. La Juniores di quella foto fu la primissima rosa della Rigamonti, poi divenuta prima squadra».
L’idea di dare un approdo diretto alla filiera giovanile, quindi una prima squadra, dopo qualche esperimento passato è stata per ora accantonata, ma ne esiste almeno uno indiretto.
«La collaborazione con alcune realtà territoriali ha portato prima alla costituzione della Rigamonti Nuvolera, poi della Rigamonti Castegnato, due situazioni che hanno anche portato risultati. Il problema è che ci siamo accorti che le prime squadre distolgono l’attenzione dai nostri veri obiettivi, in termini di tempo e soldi. La nostra unica priorità è il settore giovanile, non possiamo togliergli nulla. Quest’anno collaboriamo con la Juniores del Prevalle, che è 100% Rigamonti, inoltre abbiamo una selezione di under 19 provinciale con la quale puntiamo a vincere il campionato per diventare regionali, come lo è già il Prevalle: due sbocchi di quel livello alzerebbero l’asticella. Se arriverà qualcuno che vorrà investire in una prima squadra granata lo ascolteremo, ma per adesso pensiamo che spendere i nostri soldi in quella direzione sia come buttarli, perché le soddisfazioni che ci si toglie coi giovani sono un’altra cosa, soprattutto quando vedi dei bambini diventare uomini, persone. Ogni euro (e non sono pochi) del nostro investimento su di loro è ben speso, ai nostri ragazzi serve la nostra completa attenzione».
Il presente parla di numeri importanti e di iniziative volte ad accrescere il livello dello staff, della proposta e del contesto nel suo insieme.
«Abbiamo superato per la prima volta quota 300 giocatori tesserati, abbiamo squadre pure dal 2004 al 2015, in alcune annate sono doppie o triple. Da qualche anno abbiamo deciso di fare solamente campionati Figc, riteniamo che il nostro ambito sia questo, ci sono tutele maggiori. Pensiamo sia fondamentale il numero di giocatori in campo, nell’attività di base meno sono meglio è: per arrivare a giocare a 11 c’è tempo, i ragazzi vanno accompagnati progressivamente, non serve bruciare le tappe; a volte si iscrivono squadre di Esordienti tra i Giovanissimi solo per poter giocare a 11 con un anno di anticipo. Non si capisce che più giocatori ci sono sul terreno di gioco meno il singolo giocatore toccherà palla e potrà esprimere la propria creatività, affinare il proprio talento.
Per la nostra attività è infine molto importante il sostegno del gruppo Ivar della famiglia Bertolotti, Stefano è anche nel nostro organigramma, ricopre il ruolo di vice presidente; il contributo economico che ci danno è primario per portare avanti il nostro progetto di crescita, siamo felici ed orgogliosi che la loro Ivar Sport Academy, accademia polisportiva che sostiene diverse realtà provinciali, ci abbia scelto».
Diverse le novità della stagione 2020-2021:
«Abbiamo avviato le pratiche per diventare Scuola Calcio Élite Figc: partecipiamo a incontri della Federazione e ne organizziamo, abbiamo aggiunto una psicologa allo staff, dobbiamo garantire che i nostri allenatori abbiano il patentino o siano istruttori Isef, questo è uno dei nostri primi obiettivi. Poi volevamo partire con il calcio a 5 ma non ci sono abbastanza squadre in provincia, quindi abbiamo dovuto rimandare. Stiamo lavorando tanto e bene, ma abbiamo molto da fare, soprattutto in ambito attività di base, perché l’agonistica è già ad un ottimo livello. Anche per questo siamo tornati ad essere Centro di Formazione Brescia Calcio. Siamo per la “piramide”, non tanto perché è il Brescia, ma per territorialità e logistica, non ha senso che un bambino o un ragazzo rinunci ad un percorso educativo, o gli tolga tempo, per andare a giocare fuori provincia o addirittura regione, quando potrebbe fare tutto nella sua zona geografica. Se uno è bravo il suo talento esce, ma serve un piano formativo. Non contano i colori della società partner, in passato abbiamo stretto accordi anche con la Feralpisalò, ad esempio. Ma ci sono dei colori che invece contano molto, sono i nostri: innanzitutto siamo indipendenti, poi la nostra maglia è sempre granata, non abbiamo nessun kit del Brescia, la nostra identità è fondamentale».
Sul tema dei club professionisti che reclutano nelle province, non per forza adiacenti, la situazione è sempre delicata:
«Colpa dei pro, ma soprattutto di chi glielo permette. Serve una decisione dall’alto, della Federazione, fino ad una certa età si dovrebbero proibire i passaggi a società professionistiche, indossare una maglia importante crea illusioni, gran parte di quei bambini arriverà a smettere di giocare a calcio perché la realtà non sosterrà le aspettative, le illusioni appunto. Molti ragazzi vengono distrutti psicologicamente, l’aspetto psicologico è determinante e centrale anche per la nostra attività. Ci sono tanti passi avanti culturali da fare, siamo indietro anni luce rispetto ad altre situazioni, altri Paesi. I genitori, se vengono informati ed educati, capiscono e ti seguono: bisogna farlo».
La chiosa riguarda necessariamente la situazione globale attuale, su cui pesa l’emergenza sanitaria:
«Da quando si è riaperto abbiamo fatto e stiamo facendo tutto il possibile, seguendo alla lettera i protocolli, non sempre semplici da rispettare. Sentiamo giornalmente il dott. Denard, storico ed eminente medico del Brescia che ora collabora con noi, è lui che ci dice come muoverci. Occhio a togliere lo sport ai ragazzi, l’impatto psicologico ed emotivo può essere profondamente dannoso. Prima del nuovo stop avevamo deciso di prenderci dei rischi, sempre all’interno delle norme, ci siamo assunti le nostre responsabilità, sollecitati dalle famiglie. Il fatto è che viene detto ai ragazzi di stare a casa, ma lontani dai centri sportivi non sono più sicuri, nei parchi e nei centri commerciali, per dire, non esistono protocolli rigidi come quelli che abbiamo noi, quindi il rischio è per assurdo maggiore. I ragazzi che non sono da noi sono a giocare da un’altra parte, non in sicurezza».
Il decreto regionale diffuso stasera cambia nuovamente le carte in gioco. Fare calcio giovanile nel 2020 vuol dire soprattutto questo, essere pronti a tarare e sistemare e correggere la propria attività settimana sì settimana no.
Senza però dimenticare da dove si viene e dove si vuole andare. Vocazione e identità.
Matteo Carone
Fonte: calciobresciano.it
Data di pubblicazione: Mercoledì 21 Ottobre 2020